Dopo aver indicato la condizione primaria per svolgere questo compito missionario che tocca a ciascun battezzato, e cioè quella di "avere ben chiaro" che Dio è "concreto" ed esiste, è presente ed è entrato nella storia, il Papa ha anche suggerito un "metodo" vincente, mutuato dallo stesso "metodo di Dio", che è quello dell'"umiltà", della "semplicità" e del ritorno "all'essenziale".
Chi ha fiducia in Dio, infatti, non teme "l'umiltà dei piccoli passi" e confida in quel "lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere", di cui parla Matteo nel suo Vangelo.
Detto in altre parole, "il parlare di Dio nasce quindi dall'ascolto, dalla nostra conoscenza di Dio che si realizza nella familiarità con Lui, nella vita della preghiera e secondo i Comandamenti", come ha insegnato innanzitutto "quell'eccezionale comunicatore che fu l'apostolo Paolo", e prima di lui lo stesso Gesù Cristo: "partendo sempre da un intimo rapporto con Dio Padre".
Benedetto XVI ha spronato i fedeli a cercare "nuovi percorsi a livello personale e comunitario" per "comunicare senza timore la risposta che offre la fede in Dio", prestando attenzione "a cogliere i segni dei tempi nella nostra epoca".
Uno dei luoghi privilegiati per parlare di Dio è senza dubbio la famiglia, "prima scuola per comunicare la fede alle nuove generazioni", dove i genitori fungono da "primi catechisti e maestri della fede per i loro figli" e dove attraverso "la capacità di ascolto e di dialogo" da loro vissuta, ci si comprende e ci si ama e si diventa "un segno, l'uno per l'altro, dell'amore misericordioso di Dio".
Tuttavia, sarebbe una sfida persa in partenza se la comunicazione della fede non avesse "una tonalità di gioia" che fa vivere le esperienze dolorose della vita (dolore, sofferenza, fatica, difficoltà, incomprensioni, morte) "nella prospettiva della speranza cristiana", vedendo "con gli occhi stessi di Dio ogni situazione" e riconoscendo, così, "la presenza del bene, che non fa rumore".
Giovanni Tridente
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