"Abbiamo visto che la Chiesa anche oggi benché soffra tanto, come sappiamo, tuttavia è una Chiesa gioiosa, non è una Chiesa invecchiata, ma abbiamo visto che la Chiesa è giovane e che la fede crea gioia" (Benedetto XVI, 29 luglio 2010)

giovedì 29 ottobre 2020

La "Fratelli tutti" secondo me: complessità, azione e sogno


Leggendo il testo dell’Enciclica "Fratelli tutti" di Papa Francesco, mi sono rimaste impresse tre parole in particolare.

La prima è complessità: essa non è intesa in senso meccanico, ma come la serie di fenomeni che riguardano l’umanità; PapaFrancesco entra in questa complessità che caratterizza l’uomo sviscerando tutte le questioni e le implicazioni che hanno a che fare con la vita di ognuno di noi e il nostro rapporto con la vita degli altri.

La seconda parole è azione: dobbiamo darci da fare! Ciascuno con le proprie competenze e secondo le proprie responsabilità deve cercare di fornire luce a questo mondo pieno di situazioni da rivedere e da aggiornare; tale azione, secondo me, ha a che fare con la collettività (a darsi d fare devono essere governi e nazioni) e con la responsabilità individuale a cui è chiamato ogni individuo di buona volontà. D’altronde, è questo il senso dell’enciclica: una lettera circolare che non è solo per la Chiesa, ma che si rivolge a tutti coloro che guardano al mondo in prospettiva.

La terza parole è sogno: sognare con speranza, possiamo riuscirci!

BENE COMUNE

Questa Enciclica è un ottimo vademecum che sintetizza la visione della Chiesa rispetto al bene comune; non a caso è detta "sociale", perché riassume la Dottrina Sociale della Chiesa con riferimenti anche al Magistero precedente ("Deus Caritas Est" di Benedetto XVI e "Centesimus Annus" di Giovanni Paolo II) e in continuità con quest’ultimo. Consiglierei a tutti, sia capi di stato che di governo che ad ogni cittadino, di leggerla; non tanto per una questione di adesione a dei principi di fede, ma per la volontà di costruire una società migliore.

Citando Giovanni Paolo II, se dovessi riassumere in un titolo la “Fratelli tutti” ricorrerei alla sua famosa espressione rivolta ai cittadini romani: Damose da fa'. È una chiamata alle armi - se vogliamo - perché il mondo soccombe per tante situazioni e tocca a noi cambiarlo: diamoci da fare!

LA COMUNICAZIONE E IL DIALOGO

Già nella "Christus vivit", dedicata ai giovani, Papa Francesco invita a non ridurre la comunicazione a strumento, ma a farci noi stessi comunicazione, perché in fondo lo siamo.

Questa Enciclica tratteggia poi, secondo me in maniera molto chiara, l’elemento del dialogo. C’è una rivoluzione di intenti rispetto a questa parola: il dialogo prende in considerazione anche ciò che l’altro ha da dire e che può servire a me per comprendere meglio il mondo. È un aspetto fondamentale che ci deve animare ad avviare questi percorsi di relazione con gli altri e nello stesso tempo a superare tutti i cattivi usi nella rete: evitare i monologhi cercando dall’altro qualcosa di utile per me e per la società tutta.

Il Vangelo propone una parola chiave: l’amore. Amore non inteso come puro sentimentalismo, ma come il farsi prossimo a chi è accanto e che vive in situazioni lontane dalla nostra comodità. È questa la chiave con cui cambiare il mondo: lo insegna la Chiesa da 2000 anni e in questa Enciclica il metodo è offerto nel secondo capitolo con la parabola del buon samaritano.

Bisogna occuparci di coloro a cui, in primis, non daremmo credito: è questo che fa il buon samaritano.

Giovanni Tridente

domenica 4 ottobre 2020

"Fratelli tutti": nel giorno del Poverello di Assisi, ecco la terza Enciclica di #PapaFrancesco sulla fraternità e l'amicizia sociale


Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri ego sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l'appartenenza come fratelli. Queste parole, pronunciate da Papa Francesco nella solitudine di Piazza San Pietro, in quella sera del 27 marzo nel pieno della pandemia, quando milioni di occhi vi assistevano soltanto attraverso i mezzi di comunicazione collegati in mondovisione, assumono oggi un significato ancora più delineato se non profetico. 

Il 4 ottobre, Festa di San Francesco d’Assisi, viene infatti consegnata al popolo fedele (e a tutti gli “uomini di buona volontà”) la nuova Enciclica (“lettera circolare”) del Santo Padre, intitolata proprio Fratelli tutti e legata ai temi della fraternità e dell’amicizia sociale, come si legge nel sottotitolo.


Come consuetudine, questo tipo di documento magisteriale prende il nome dall’incipit del documento, e anche questa volta, come era avvenuto per la Laudato si’, Papa Francesco si è ispirato al Santo Patrono d’Italia, e in particolare alla frase contenuta nelle Ammonizioni, 6, 1: FF 155: Guardiamo con attenzione, fratelli tutti, il buon pastore, che per salvare le sue pecore sostenne la passione della croce. Fraternità, intesa come appartenenza alla stessa creazione, lascia dunque intravedere un legame inevitabilmente a doppio filo con la precedente Enciclica, incentrata “sulla cura della casa comune”. 

Una particolarità di questa Lettera sarà il fatto che il titolo rimarrà inalterato nell’originale italiano anche nelle altre traduzioni in cui sarà diffusa. E con “fratelli tutti” il riferimento è evidentemente a tutto il genere umano, legato da questo rapporto poiché “tutti” Figli dello stesso Padre.


Ci sarebbero tante cose da dire su quanto sia centrale il tema della fraternità nel Magistero di Papa Francesco, a cominciare da quel suo primo pronunciamento dalla Loggia di Piazza San Pietro, la sera stessa dell’elezione: Fratelli e sorelle, buonasera!

E poi il primo viaggio – drammatico – fuori dai confini del Vaticano a quattro mesi dall’elezione, nell’isola di Lampedusa, teatro di tante tragedie legate al fenomeno delle immigrazioni forzate, con centinaia di morti in mare che portarono Papa Francesco a dire: «Dov’è il tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue?… Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?».

L’anno dopo, l’8 giugno 2014, la stretta di mano tra i presidenti israeliano e palestinese nei Giardini vaticani con la parola “fratello” a fare da “chiamata a spezzare la spirare dell’odio e della violenza” tra i popoli e “proclamare” la pace. E poco più di un anno fa, il 4 febbraio 2019, la firma della “Dichiarazione sulla fratellanza umana” ad Abu Dhabi con quel forte invito a riscoprirsi fratelli per promuovere insieme anche qui la giustizia e la pace, garantendo i diritti umani e la libertà religiosa.

Nel segno del “Poverello di Assisi”, da cui Jorge Mario Bergoglio ha preso il nome da Papa, lo sarà anche questa terza Enciclica, presso la cui tomba il Pontefice la firma, e non suoneranno affatto estranee parole come povertà, ecologia, fraternità, giustizia sociale, contemplazione del creato, vicinanza agli ultimi, interesse per ogni uomo e per tutto l’uomo.

Lo spartiacque della pandemia

C’è evidentemente uno spartiacque nel magistero di Papa Francesco, che non può essere ignorato ma perché non può essere ignorato quanto siano cambiate le abitudini e le esigenze di tutta l’umanità, da molti mesi costretta a combattere l’insidiosità e la pericolosità di una pandemia che ha mietuto già molte vittime. 

Dal quel 27 marzo in Piazza San Pietro, solo e claudicante sotto la pioggia, Papa Francesco non ha smesso di mostrare come l’emergenza sanitaria sia una dimostrazione di ciò che profondamente ci lega come esseri umani, e cioè l’appartenenza alla stessa famiglia esistenziale, la imprescindibile “connessione” con tutto il resto del creato e la necessità di prendersene cura, anche se profeticamente lo aveva “diagnosticato” già cinque anni fa con la Laudato si’. Da questo “tutto nel mondo è intimamente connesso”, evidentemente scaturiscono le comuni conseguenze negative, ma anche l’approccio e la sfida a migliorarsi e a migliorare tutto ciò che ci circonda, per il bene nostro e di chi ci è simile.

La Chiesa è stata in prima linea e l’appello – costante – del Papa a prendersi cura di chi rimaneva indietro ha generato molteplici percorsi di solidarietà e sostegno. Adesso è il momento di “passare all’incasso”, di rendere quella solidarietà estemporanea qualcosa di duraturo e sistematico, per una ragione di fedeltà al Vangelo e alla chiamata ricevuta con il Battesimo.

Per queste e altre ragioni, anche allo scopo di dare un contributo concreto a vedere oltre il proprio naso e a estendere lo sguardo oltre l’immediatezza del proprio “tornaconto”, alla ripresa della pausa estiva, il Papa ha iniziato una serie di catechesi del mercoledì (Udienze generali) incentrate sulla necessità e urgenza di “guarire il mondo” ferito dalla pandemia, attingendo alla grande ricchezza della Dottrina Sociale della Chiesa. Lo aveva già ripetuto all’inizio della pandemia e insiste nel dirlo: da una crisi si esce migliori o peggiori, sta a noi fare di tutto per uscirne migliori. 

Guardando dunque alle ultime Udienze – che dal mese di settembre prevedono anche la presenza di fedeli, seppur nel più contenuto Cortile di San Damaso, a cui si accede rispettando le precauzioni sanitarie previste – ci sono alcune parole chiave che si intrecciano a doppio filo con la necessità di uscire migliori dalla crisi, ma anche se vogliamo “più generosi”, “più umani” e quindi “più fratelli”.

Fede, speranza e carità

Sicuramente, la pandemia ha messo allo scoperto le nostre vulnerabilità come esseri umani, e il primo antidoto per non soccombere di fronte alle difficili sfide che ci aspettano è avere uno sguardo di fede, per poter così sperare in un “Regno di guarigione e di salvezza” che si rende inevitabilmente presente nella nostra epoca attraverso gesti di carità. Il punto di partenza sono dunque per il Papa le tre virtù teologali con lo sguardo fisso sull’esempio di Gesù, e grazie ad esse ciascun battezzato può “assumere uno spirito creativo e rinnovato” per “trasformare le radici delle nostre infermità fisiche, spirituali e sociali”.

Per essere concreti, il Papa evidenzia quelli che sono i principi che in forme diverse esprimono le virtù teologali e possono aiutare a preparare un futuro più roseo. Sono tutti legati alla tradizione della Dottrina Sociale della Chiesa e interpellano dirigenti e responsabili della società: dignità della persona, bene comune, opzione preferenziale per i poveri, destinazione universale dei beni, solidarietà, sussidiarietà, cura della nostra casa comune. 

Su ciascuno di questi principi il Papa ha dunque riflettuto nel corso delle ultime Udienze, allo scopo di consentire a tutti di “recuperare la vista” e “riscoprire cosa significa essere membri della famiglia umana” e prendersi cura di tutto ciò che in un certo senso ci riguarda.

Contemplazione

Una ulteriore parola che il Pontefice ha ripetuto con frequenza è quella della contemplazione, che insieme a cura rappresentano due attitudini “per correggere e riequilibrare la nostra relazione come essere umani con la creazione", una relazione che possa essere "fraterna" anche se in senso figurato, come ha detto in una delle ultime udienze.

La contemplazione permette da una parte di riconoscersi come parte della creazione e dall’altra di “tutelare” in un certo senso anche tutti gli altri membri della stessa, “la persona con tutta la sua ricchezza". E c’è una legge che vale sempre: “Chi sa contemplare, più facilmente si metterà all’opera per cambiare ciò che produce degrado e danni alla salute”.

Insomma, "contemplare per curare, contemplare per custodire, custodire noi, il creato, i nostri figli, i nostri nipoti e custodire il futuro", ha spiegato Francesco, ben sapendo que non si tratta di delegare solo ad alcuni, poiché è una missione che riguarda “ognuno di noi”, tutti fratelli.

Articolo apparso in lingua spagnola sul numero di ottobre della Revista Palabra.

venerdì 3 luglio 2020

La Chiesa e la comunicazione nel post Covid-19


Da più parti ci si chiede come sarà il mondo dopo la pandemia di Covid-19 e un aspetto fondamentale di questa riflessione non può che riguardare la comunicazione, che mai come in questa emergenza sanitaria mondiale ha dimostrato tutta la sua centralità. E non poteva essere altrimenti, dato che ogni uomo è oggi un media, tutti siamo interconnessi e non è più concepibile considerare l’umanità scissa dalla comunicazione, soprattutto a partire dall’avvento di Internet[1].

 

Tutto ciò fa il paio evidentemente con un sovraccarico informativo, la moltiplicazione di piattaforme, la generazione costante di iniziative editoriali che provocano uno stress sociale in cui si insinua il tarlo della disinformazione, che va a scapito della libertà della stessa cittadinanza, in quanto non le consente di prendere delle decisioni consapevoli e veramente utili.

 

La Chiesa – le comunità ecclesiali – non può esimersi da considerare tutti questi elementi, ma al tempo stesso non può stare alla finestra a guardare lasciando che la tempesta passi. Maestra di umanità, essa può invece inserirsi in questo flusso ormai irrefrenabile e continuare a fare la propria parte da protagonista. A partire da tutto quanto dimostrato dall’emergenza per il Covid-19, ritengo che ci siano almeno 3 fronti su cui impostare il lavoro comunicativo del futuro: vicinanza, fiducia e vocabolario.

 

1. Stare vicino

 

Nell’intervista rilasciata all’inizio della Settimana Santa di quest’anno a The Tablet, Papa Francesco ha detto chiaramente che la sua principale preoccupazione per il dopo Covid era quella di trovare i modi per “stare vicino”[2] al popolo di Dio.

 

Tra le principali vittime della solitudine ci sono sempre stati innanzitutto gli anziani, e la pandemia lo ha evidenziato in maniera ancora più forte e purtroppo drammatica[3]. Papa Francesco aveva visto lungo anche in questo, tanto è forte il richiamo che da sempre rivolge sull’attenzione alla popolazione della terza età nella sua predicazione. Dovranno perciò essere loro i pubblici privilegiati della vicinanza della Chiesa, anche sul piano comunicativo, per stimolare la società a rendersi conto di questo speciale tesoro – “le radici”, come le chiama Papa Francesco – che per troppo tempo ha messo all’angolo, e che il Coronavirus ha addirittura fatto evaporare falcidiando le vite di migliaia di nonni.

 

Legato a ciò c’è la vicinanza da mostrare ai ragazzi, coloro che da queste radici avrebbero dovuto trarre la linfa per diventare uomini nella società, e con loro alle famiglie, la dimora dove trascorrono il loro tempo e ricevono i principali insegnamenti.

 

C’è da mostrare inoltre vicinanza al mondo dell’educazione, dalle scuole dell’infanzia alle Università, e quindi agli insegnanti che ne sono il motore, perché è la scuola che insieme alla famiglia consente a una società di gettare le fondamenta qualitative del suo domani[4].

 

Infine c’è il mondo dell’impresa e del lavoro, altra vittima di questa pandemia, che dovrà rimettersi in sesto anche per generare un futuro economico per le popolazioni. Solidarietà, educazione e lavoro, dunque, come temi pienamente in linea con la Dottrina Sociale della Chiesa.

 

2. Fiducia

 

Come istituzione la Chiesa dovrà riacquistare la fiducia del suo Popolo, e ciò si collega strettamente con il tema della vicinanza di cui sopra. Più sono veramente vicino alle persone più acquisisco credibilità e termino per essere considerato partner affidabile nelle sfide che la storia mi presenta.

 

Il principale modo per trasmettere fiducia attraverso la comunicazione è quello di mostrarsi innanzitutto competenti: si parlerà soltanto di ciò che si saprà a fondo, perché studiato nei dettagli ed elaborato con perizia.

 

L’altro elemento è quello dell’onestà, che fa il paio con la trasparenza, cioè il comunicare in maniera limpida, anche le proprie vulnerabilità, senza nascondere nulla perché diversamente questo genera nei “pubblici” considerazioni non proprio piacevoli.

 

Infine bisognerà mostrarsi affidabili: pochi dati ma certi e di qualità, poche parole ma veritiere e chiare, pochi piani, ma tutti realizzabili, massima disponibilità a dare supporto e ad assistere. E questo sarà di conseguenza un modo concreto per superare lo scoraggiamento del proprio popolo, che in questo momento è molto ferito e abbastanza abbattuto. Il tutto andrà promosso con grande positività e vero senso di comunità.

 

3. Le giuste parole

 

Sappiamo benissimo del sovraccarico informativo in cui ci troviamo, e non serve aggiungere altro, però abbiamo molto da fare per quanto riguarda il ripristino del giusto vocabolario. Le parole possono essere come pietre, possono ferire, possono disorientare. Anche la loro assenza lo può fare. Ecco perché c’è bisogno di trovare “parole consapevoli”, che siano giuste per il contesto in cui si comunica. Parole veritiere, mai banali, però puntuali, vicine, concrete, umane, non sofisticate[5].

 

Potrà essere difficile riuscire nell’impresa se saremo costretti ancora per qualche tempo a comunicare quasi solo in forma mediata, privi dell’ausilio della voce e delle espressioni del corpo, a rischio costante di fraintendimento. Ma la lezione che ci insegna questa emergenza è proprio quella di imparare a trovare le parole giuste, cucite addosso alle situazioni, mai superflue, immagine delle nostre vere intenzioni, grandi canali di pura testimonianza verso interlocutori attenti e desiderosi di ascoltare.

 

Articolo apparso su L'Eco di Bergamo il 25 giugno 2020


[1] Cfr. Filippo Ceretti, Massimiliano Padula, Umanità mediale. Teoria sociale  e prospettive educative, Edizioni ETS, Roma 2016; Giovanni Tridente, Bruno Mastroianni (a cura di), #Connessi. I media siamo noi, Edusc, Roma 2017.

[2] Cfr. Austen Ivereigh, Pope Francis says pandemic can be a ‘place of conversion’, “The Tablet”, 8 aprile 2020: https://www.thetablet.co.uk/features/2/17845/pope-francis-says-pandemic-can-be-a-place-of-conversion-.

[3] AA.VV., Coronavirus. Oms: in Europa strage nelle case di riposo. I casi di Francia, Spagna e Uk, “Avvenire”, 23 aprile 2020: https://www.avvenire.it/mondo/pagine/oms-in-europa-meta-dei-morti-nelle-case-dei-riposi.

 

[4] Cfr. Dario Antiseri, Più libertà per una scuola migliore, Rubettino, Soveria Mannelli 2020: https://www.store.rubbettinoeditore.it/piu-liberta-per-una-scuola-migliore.html?___SID=U.

[5] Cfr. Vera Gheno, Potere alle parole. Perché usarle meglio, Einaudi, Torino 2019.



mercoledì 29 aprile 2020

"Abbracciamo la speranza": 11 donne rileggono Papa Francesco per il dopo coronavirus


Ad un mese esatto dalla preghiera-meditazione di Papa Francesco, celebrata in mondovisione il 27 marzo in una deserta Piazza San Pietro – immagini che rimarranno a lungo nella memoria collettiva – 11 donne di differenti professioni e vocazioni rileggono quelle parole del Pontefice in prospettiva futura, provando ad aprire nuovi spiragli di luce per l’umanità ferita dalla pandemia di Covid-19 mentre inizia la cosiddetta “fase 2”.

11 testimonianze “a caldo”, contenute nell’instant ebook Abbracciamo la speranza, diffuso in rete gratuitamente e curato da Giovanni Tridente, docente di giornalismo alla Pontificia Università della Santa Croce.

“Anche oggi attendiamo una ‘resurrezione’ più laica, che ci faccia ritornare alla ‘normalità’ delle incombenze che ci tenevano impegnati prima del coronavirus. Eppure vivremo una storia ‘trasfigurata’, un risveglio da ripensare e reinventare – scrive Tridente nell’introduzione al libro –. Chi meglio delle donne ci potrebbe accompagnare in questa nuova ‘visione’ di mondo, per non soccombere ma guardando l’orizzonte con occhi rinnovati?”.

A rileggere le parole del Papa – gli undici paragrafi che compongono la preghiera meditazione del 27 marzo –, la filosofa Flavia Marcacci, la psicoterapeuta Francesca D’Arista, l’infermiera Marta Ribul, che si sta occupando dall’inizio della pandemia dei malati di Covid-19 ricoverati nell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, la pediatra Rosanna Mariani, che opera nella struttura Covid di Palidoro dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, l’imprenditrice sociale Luciana Delle Donne, la sociolinguista Vera Gheno, la scrittrice e HR stategist Tatiana Coviello, l’abadessa del Monastero delle Cappuccine di Napoli suor Rosa Lupoli, la giornalista Francesca Folda, la professoressa Chiara Giaccardi dell’Università Cattolica di Milano e la speaker Assunta Corbo.

La premessa è affidata al sociologo e docente universitario Massimiliano Padula, mentre il filosofo e social media manager Bruno Mastroianni ha scritto la postfazione.

L’immagine di copertina è ricavata da un dipinto di Filippo Mariani, con questa didascalia: "Noi... il nostro abbraccio travolto dalla tempesta... la primavera e il suo profumo... un sogno, il risveglio e la speranza". La realizzazione grafica del volume è di Liliana Agostinelli.

Il libro si trova all’indirizzo www.abbracciamolasperanza.it ed è distribuito con licenza Creative Commons: si può condividere liberamente ma senza scopi commerciali e senza modificarlo.

martedì 3 marzo 2020

I 7 anni di pontificato di Papa Francesco secondo me...

Versione in italiano dell'intervista rilasciata a Drazen Kustura sul settimanale di Sarajevo Katolički tjednik, in uscita il 3 marzo 2020 [Disponibile QUI]


D - Egregio professore Tridente, sette anni fa, i cardinali hanno eletto papa Francesco come successore di san Pietro. Secondo Lei, quali sono le principali caratteristiche del suo pontificato?

R - Non è semplice riassumere in poche battute le caratteristiche di questo pontificato, che seppur iniziato di recente ha avviato una serie di processi in tanti campi, a cominciare dalla riforma della Curia Romana, che erano stati richiesti proprio dalle Congregazioni generali dei Cardinali in sede di Conclave. Tuttavia, volendo essere sintetici ma pragmatici, direi che questo è un pontificato a forte trazione pastorale, che intende ricondurre all’essenziale gli uomini e le donne del nostro tempo attraverso una vicinanza concreta di ogni pastore d’anime. E in questo Papa Francesco è il primo – dal primo giorno – a dare l’esempio, proprio come Vescovo di Roma e quindi della Chiesa universale. In questa nostra epoca lo Spirito Santo, attraverso la guida che è il Successore di San Pietro, sta dunque dando alla Chiesa una impronta missionaria, che ha come conseguenza una reale “incarnazione” del messaggio evangelico nella vita della gente.

D - Dall'inizio del suo servizio, Papa Francesco ha convinto molti con la sua semplicità. Quanto è cambiata la percezione esterna della Chiesa con il suo pontificato, specialmente in Italia e poi nel mondo?

R - Più che la percezione esterna della Chiesa direi che è cambiato il mondo. In pochissimi anni, grazie anche al frenetico sviluppo tecnologico e all’avanzare dei social con il continuo popolamento di questo ambiente da fette sempre più numerose di popolazione, ci siamo scoperti tutti “intimamente connessi”, come afferma Papa Francesco in Laudato si’. Ciò ha portato anche la Chiesa a parlare con maggiore incidenza nelle questioni che più interessano la vita delle persone. C’è anche da dire che la stessa nostra epoca vive una crisi di leadership molto forte, quindi ha una grande necessità di personalità carismatiche, che possano aiutare ad affrontare meglio le grandi instabilità sociali, culturali e anche personali che ci troviamo a vivere. Una personalità forte come Papa Francesco – forte proprio perché semplice e genuino nella sua quotidianità e vicinanza umana –, è ciò che oggi sembra rispondere meglio a questa fame di senso.

D - Molti diranno che Francesco è un buon comunicatore e che i media lo adorano. Eppure, a volte, i media hanno trasmesso in modo sensazionale alcune delle sue dichiarazioni, presentandole con nuovi insegnamenti della Chiesa. Quanta verità c'è? Il Papa ha introdotto una nuova dottrina?

R - Anche in questo caso direi che il focus va orientato proprio sui comunicatori e sugli operatori dell’informazione piuttosto che sul Papa o sulla Chiesa. Nel senso che, con molta frequenza assistiamo a “travisazioni” del messaggio del Pontefice, principalmente perché non viene acquisito con la giusta attenzione – e quindi semplificato per ragioni di velocità e immediatezza; secondariamente, perché si preferisce la via breve del sensazionalismo, che casomai fa vendere più copie e porta più click ma porta ad omettere la trasmissione di un contenuto coerente e vero, che all’opposto richiede tempo di studio, giusta analisi e qualificata contestualizzazione. Il problema dunque non è tanto del Papa ma di chi mette nella bocca del Papa parole e argomentazioni che o non ha pronunciato o addirittura ha spiegato in maniera opposta. Tra l’altro, questo non è solo un cattivo lavoro che si fa alla Chiesa ma alla verità e alla società intera.


D - L'attuale Santo Padre sembra avere il maggior numero di nemici nella gerarchia della Chiesa. Si parla spesso di due correnti: conservatrice e progressista. Come concilia queste due posizioni? Francesco è un progressista che si discosta dalla tradizione ecclesiale?

R - Cadere nel tranello della semplificazione per categorie, tra l’altro superate abbondantemente anche storicamente, potrebbe indurre in una valutazione falsata del fenomeno. A mio giudizio esiste, da una parte, la reale coerenza del magistero di Papa Francesco rispetto a quello dei predecessori, e con tutta la tradizione ecclesiale per quanto riguarda i cardini dottrinali dell’insegnamento della Chiesa. Dall’altra parte esistono delle reazioni scomposte che apparentemente hanno a che fare con una presunta preoccupazione per la “conservazione del deposito di fede” ma che scavando in profondità nascondono altri tipi di ragioni, spesso politiche o addirittura dovute ad un “potere” perduto. In mezzo a tutto questo, le vere vittime sono le anime semplici di chi è estraneo a logiche politiche eppure assiste ad uno spettacolo indecoroso che mette in dubbio l’autorità morale di oltre un miliardo di fedeli. Detto ciò, è comunque chiaro che queste continue “mine” non praevalebunt.

D - In relazione alla domanda precedente, sembra che i tradizionalisti aderiscono a Benedetto XVI e i progressisti a Francesco. C'è una grande differenza tra loro due o no?

R - Mi riallaccio alla risposta precedente e aggiungo che proprio Benedetto XVI aveva invitato a superare “l’ermeneutica della discontinuità” parlando invece di “ermeneutica della riforma”, di una sorta di rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa, riferendosi al Concilio Vaticano II e – guarda caso – al doppio registro che aveva avuto il racconto di quella importante assise conciliare nell’ambito dei mass media. È inevitabile che in persone diverse per provenienza, cultura, esperienze e impegni anche in seno alla stessa Chiesa vi siano delle differenze di approcci, abitudini, modus operandi, ecc. Ma ciò che è chiaro, e ciò che veramente interessa quando si parla di insegnamenti pontifici, è proprio questa continuità magisteriale, che pur con le dovute differenze di “attuazione pratica” potremmo dire, permane nel tempo, anzi si accresce ogni giorno di più, in fedeltà alla Tradizione, alla Parola di Dio e a tutto il Magistero precedente.

D - Molti hanno atteso con impazienza la pubblicazione della Esortazione Apostolica post-sinodale 'Querida Amazonia'. Prima di tutto, a causa di due domande: viri probati e ordinazione delle donne. Dal momento che il Papa non ha portato nulla di nuovo, si può concludere che si tratta di una "vittoria" per i tradizionalisti?
R - Qui bisogna domandarsi: per cosa era stato convocato il Sinodo sull’Amazzonia? Non certo per rispondere a quelle due domande che lei cita, che sono venute fuori più da una preoccupazione esagerata o da una semplificazione mediatica che altro. Certo, dopo aver creato presunte aspettative, è stato facile “posizionarsi” a favore e contro aperture o chiusure che però non erano esattamente all’ordine del giorno. Finalmente, con l’Esortazione apostolica "Querida Amazonia", scaturita dal cuore orante del Santo Padre – come lui stesso ha scritto –, si è messo anche fine a una serie di speculazioni che hanno dimostrato non avere alcuna ragione di fede o dottrinale, ma che restano legate a categorie politiche. Per non cadere anche noi nel rischio della semplificazione dobbiamo allora prendere tra le mani questo importante documento e meditarlo ogni giorno. Credo che sia un vero gioiello spirituale che il Papa consegna ancora una volta a tutta la Chiesa.


D - La Chiesa in Germania iniziò il Sinodo mettendo enfasi su fatto che non avrebbe rispettato ciò che il Papa aveva suggerito loro. Cosa ci si può aspettare da questo Sinodo? È questa la più grande sfida del pontificato di Francesco?

R - Non conosco la situazione della Chiesa in Germania né ho seguito la vicenda da vicino. Ricordo però che a fine giugno dello scorso anno Papa Francesco ha inviato una Lettera a tutti i fedeli tedeschi in vista di questo appuntamento sinodale e ha invitato a guardare sempre alla prospettiva dell’unità della Chiesa. Infatti, in quella occasione il Papa scrive “Ogni volta che una comunità ecclesiale ha cercato di uscire dai suoi problemi da sola, affidandosi soltanto alle proprie forze, metodi e intelligenza, ha finito per moltiplicare e alimentare i mali che voleva superare”. Quindi, come il Santo Padre, anche io penso che bisogna procedere con saggezza e dare sempre la centralità delle nostre azioni allo Spirito Santo. Quanto alle vere sfide, mi preoccuperei di quelle che ognuno di noi è chiamato a vincere e così diventare veramente dei “portatori sani” di Vangelo.

D - Recentemente, film e serie sul papato sono stati ri-registrati (I due papi, Il giovane papa, Il nuovo papa ...). Sebbene sia una questione di finzione, quale messaggio inviano sulla Chiesa e sul Papa?

R - Innanzitutto credo che se l’industria cinematografica – con tutti i suoi limiti e le sue non tanto celate speculazioni commerciali – si interessi dell’argomento Chiesa ciò è segno che questa comunità universale – cattolica – ha forse ancora qualcosa da dire all’uomo di oggi. Fatte salve allora le opportune contestualizzazioni di queste opere di finzione (essere ispirato a una storia vera non significa essere fedele alla storia vera), e tolti di mezzo gli elementi pruriginosi e di facile gancio sul pubblico, credo che comunque qualcosa della “natura soprannaturale” di questa millenaria istituzione riesca a passare. Nel film “I due papi” a esempio, al di là delle categorizzazioni manichee verso le figure dei due pontefici, traspare comunque nei protagonisti la forza interiore e il loro spirito di servizio alla Chiesa e all’umanità. E questo credo che sia un elemento da valorizzare.

D - Sappiamo che è difficile dirlo, ma cosa possiamo aspettarci da papa Francesco in futuro?

R - Non vorrei essere frainteso, però ritengo che questi primi anni di pontificato, per la vivacità dei contenuti messi in campo e dei processi avviati anche in ambito spirituale, insieme alle tante prassi riconvertite e affinate riguardo all’organizzazione della struttura ecclesiastica, abbiano fornito le fondamenta per l’evangelizzazione dei prossimi anni. Ciò che il Santo Padre aveva intenzione di dire ormai lo ha detto, e con l’esempio ha testimoniato anche la strada che bisogna imboccare per essere veramente incisivi. I prossimi anni saranno un grande banco di prova per dimostrare da parte di noi laici se abbiamo veramente compreso la lezione oppure abbiamo preferito la vita comoda in poltrona, con una immagine che ha spesso utilizzato lo stesso pontefice. D’altronde, lui continuerà a svolgere il suo compito di guida e maestro.

D - Per concludere questa conversazione, quali sono alcuni dei tratti di papa Francesco che i cattolici dovrebbero adottare nella loro vita quotidiana?

R - Vorrei dirlo davvero con poche parole: farsi vicini, sporcarsi le mani con le sofferenze di chi ci è accanto, ascoltare, interessarsi davvero, frequentare posti diversi da quelli soliti a cui siamo abituati, incontrare chi è diverso da noi, accogliere chi è solo, rinunciare al proprio protagonismo, servire più che essere serviti, nutrirsi spiritualmente… Solo in questo modo riusciremo ad essere attrattivi anche per chi non è credente e a realizzare quel grande sogno che Benedetto XVI nutriva sulla crescita della fede in un’epoca in cui sembra che non ci sia più.

mercoledì 29 gennaio 2020

Riflessioni sul giornalismo: tornare a domandarsi il perché delle cose





Alla ricerca della “W” perduta

La recente memoria di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, mi ha portato a riflettere sullo stato attuale della professione informativa. Ho messo insieme qualche piccolo spunto nel testo seguente.

Eravamo abituati a pensare che bastasse rispondere alle “5 W” per giustificare in un certo senso la nostra abilità e prerogativa esclusiva di giornalisti a raccontare un fatto, o quantomeno ad esplorare un certo tema.

Questo “armamentario” è certamente ancora valido; non a caso è stato sviluppato dai retori e filosofi dell’antichità - forse il più noto è Cicerone, integrato poi nel cristianesimo da San Tommaso - e non è affatto superato.

C’è un però, e riguarda quella che poc'anzi chiamavo “prerogativa esclusiva” dei giornalisti, che nell’epoca dell’iperconnessione e della disintermediazione è stata progressivamente e significativamente ridimensionata, per non dire quasi del tutto annullata.

Mi spiego: oggi chiunque - attraverso i social, ad esempio - può comunicare a un pubblico potenzialmente universale il racconto di un accaduto seguendo per sommi capi questo famoso criterio delle “5 W”. Difatti lo fa. Addirittura correda il suo racconto con una prova visiva (l’istantanea che scatta trovandosi sul posto).

Ogni cittadino, dunque, è oggi un potenziale giornalista abilitato mediante il suo smartphone: mentre è testimone di un fatto, in pochi caratteri – 280? – ne trasmette il contenuto essenziale ad un pubblico più vasto, raccontando principalmente il “chi” è stato (who), il “cosa” è successo (what), “quando” è accaduto (when) e “dove” è avvenuto (where).

Se facciamo attenzione, in questo nostro esempio manca una “w”, ed è il “why”.

Ossia, perché (è accaduto)? È questo, secondo noi, l’anello mancante che oggi permette ad un giornalista di poter essere pienamente tale: rintracciare questa “w” perduta nei racconti dell’istantaneità a cui siamo vorticosamente esposti. Ed è in questa riscoperta che oggi la professione giornalistica è chiamata a fare la differenza, sia per distinguersi da ciò che può fare chiunque – e non è detto che sia un limite dei nostri tempi, assolutamente – sia per portare davvero quel valore aggiunto che, oltre a dare completezza e a corroborare il diritto di cronaca dei cittadini, manifesta l’utilità e la necessità di una simile professione.

Qui iniziano però i problemi, che in fondo neppure interessano al singolo “cittadino improvvisato giornalista” (CIG) che fa un tweet - da con confondere con il “cittadino informato quanto basta” (CIQB) per la cui fenomenologia si rimanda al filosofo Bruno Mastroianni -, dato che lui rispetta solo due aspetti del nostro sistema bulimico informativo, che in questo caso lo rendono adeguatamente soddisfatto del proprio operato: la velocità e l’immediatezza.

Ma come è facile intuire, manca la fase di “fermentazione”, di consapevole e lento approfondimento che il giornalismo - e ancora di più il giornalismo odierno - è chiamato a fare nella società. Questa fase si regge su tre gambe, le stesse su cui si regge la nostra “w” perduta se la capovolgiamo graficamente.

Perché è accaduto? 

La prima gamba di questo “perché” informativo è il “perché è accaduto”. Rispondere a ciò richiede tempo, sudore, un lavoro sul campo che deve andare oltre l’immediatezza e l’istantaneità dell’avvenimento, richiede scavo, approfondimento, che porta a consumare le suola delle scarpe come si diceva un tempo… Perché è accaduto? E da qui provare a contestualizzare, cercare di capire, riconoscere le intenzioni, gli scopi, approfondire le dinamiche, verificare.

Perché me ne occupo?

La seconda gamba di questa “w” tripartita, che viaggia insieme alle altre due e tutte sono interconnesse, è rispondere al “perché me ne occupo”. Cioè, con quale attitudine, con quali capacità, con quali sentimenti io mi pongo di fronte al fatto per raccontarlo e approfondirlo? Rispondendo a queste domande troviamo anche la strada per giungere adeguatamente al “perché è accaduto”.

Perché deve essere diffuso?

Infine, la terza gamba: perché questo che è accaduto, e del quale ho deciso di occuparmene per tali ragioni, dopo aver scandagliato il contesto in cui è avvenuto deve essere diffuso? Quale valore aggiunto comunico in questo modo alla società, alla comunità, ai miei lettori? Perché questa cosa deve essere conosciuta?

Ecco quindi dispiegato il percorso alla ricerca della “w” perduta, che va necessariamente ritrovata e valorizzata.

Perduta poiché nell’era ipertecnologica è sempre messa da parte, nonostante risponda a una domanda insita in ciascuno di noi (il perché delle cose), che tra l’altro nel venire elusa ci dispera. Da ritrovare perché è l’unico modo per dimostrare ancora una volta che del giornalismo, e del giornalismo ben fatto c’è assoluta necessità.

Ma tutto dipende da noi, non dai sistemi, dalle oligarchie, dalla tecnologia, pena l’estinzione sulla falsariga di quanto capitato con l’omino che raccoglieva i birilli al bowling, come ha sintetizzato in una efficace immagine il sociologo Massimiliano Padula.

domenica 26 gennaio 2020

Messaggio per le Comunicazioni del 2020: "Abbiamo bisogno di dare spazio al bene"


Il Messaggio di #PapaFrancesco per la 54ª Giornata mondiale delle #comunicazioni sociali in 12 #frasi + una #preghiera finale

1. Abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme. Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita.

2. L’uomo è un essere narrante perché è un essere in divenire, che si scopre e si arricchisce nelle trame dei suoi giorni. Ma, fin dagli inizi, il nostro racconto è minacciato: nella storia serpeggia il male.

3. Quante storie ci narcotizzano... Quasi non ci accorgiamo di quanto diventiamo avidi di chiacchiere e di pettegolezzi, di quanta violenza e falsità consumiamo.

4. Mettendo insieme informazioni non verificate, ripetendo discorsi banali e falsamente persuasivi, colpendo con proclami di odio, non si tesse la storia umana, ma si spoglia l’uomo di dignità.

5. Abbiamo bisogno di coraggio per respingere quelli falsi e malvagi. Abbiamo bisogno di pazienza e discernimento per riscoprire storie che ci aiutino a non perdere il filo tra le tante lacerazioni dell’oggi; storie che riportino alla luce la verità di quel che siamo, anche nell’eroicità ignorata del quotidiano.

6. Attraverso il suo narrare Dio chiama alla vita le cose e, al culmine, crea l’uomo e la donna come suoi liberi interlocutori, generatori di storia insieme a Lui.

7. Non siamo nati compiuti, ma abbiamo bisogno di essere costantemente “tessuti” e “ricamati”. La vita ci è stata donata come invito a continuare a tessere quella “meraviglia stupenda” che siamo.

8. Il Dio della vita si comunica raccontando la vita. Gesù stesso parlava di Dio non con discorsi astratti, ma con le parabole, brevi narrazioni, tratte dalla vita di tutti i giorni. Qui la vita si fa storia e poi, per l’ascoltatore, la storia si fa vita: quella narrazione entra nella vita di chi l’ascolta e la trasforma.

9. La storia di Cristo non è un patrimonio del passato, è la nostra storia, sempre attuale... Dopo che Dio si è fatto storia, ogni storia umana è, in un certo senso, storia divina. Nella storia di ogni uomo il Padre rivede la storia del suo Figlio sceso in terra.

10. Lo Spirito Santo, l’amore di Dio, scrive in noi. E scrivendoci dentro fissa in noi il bene, ce lo ricorda. Ri-cordare significa infatti portare al cuore, “scrivere” sul cuore. Per opera dello Spirito Santo ogni storia, anche quella più dimenticata, anche quella che sembra scritta sulle righe più storte, può diventare ispirata, può rinascere come capolavoro, diventando un’appendice di Vangelo.

11. Raccontarsi al Signore è entrare nel suo sguardo di amore compassionevole verso di noi e verso gli altri. A Lui possiamo narrare le storie che viviamo, portare le persone, affidare le situazioni. Con Lui possiamo riannodare il tessuto della vita, ricucendo le rotture e gli strappi. Quanto ne abbiamo bisogno, tutti!

12. Nessuno è una comparsa nella scena del mondo e la storia di ognuno è aperta a un possibile cambiamento. Anche quando raccontiamo il male, possiamo imparare a lasciare lo spazio alla redenzione, possiamo riconoscere in mezzo al male anche il dinamismo del bene e dargli spazio.


Preghiera finale

O Maria, donna e madre, tu hai tessuto nel grembo la Parola divina, tu hai narrato con la tua vita le opere magnifiche di Dio. Ascolta le nostre storie, custodiscile nel tuo cuore e fai tue anche quelle storie che nessuno vuole ascoltare. Insegnaci a riconoscere il filo buono che guida la storia. Guarda il cumulo di nodi in cui si è aggrovigliata la nostra vita, paralizzando la nostra memoria. Dalle tue mani delicate ogni nodo può essere sciolto. Donna dello Spirito, madre della fiducia, ispira anche noi. Aiutaci a costruire storie di pace, storie di futuro. E indicaci la via per percorrerle insieme.


24 gennaio 2020

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