La nascita di una iniziale
forma “strutturata” di vaticanismo
per come lo intendiamo noi oggi può essere fatta risalire agli inizi degli anni
Trenta del secolo scorso, sotto il pontificato di Pio XI, quando venne
organizzato un primo embrione di sala stampa vaticana. Era la famosa
"banda Pucci" – dal nome del prelato della Segreteria di Stato,
Enrico, che l'aveva costituita –ad occuparsi di stilare le prime note informative
vaticane e passarle ad agenzie e giornali.
Facendo un calcolo
aritmetico, e considerando pressappoco un ventennio per ciascun salto
generazionale, possiamo dire di essere giunti alla 5ª generazione di
vaticanisti; una genealogia professionale, insomma, che è "sopravvissuta",
fino ad oggi, a 8 pontificati...
Questa circostanza
temporale può essere un valido motivo per porsi qualche domanda sullo stato
della professione, e provare a ipotizzare possibili nuovi slanci.
A che cosa servono le
fonti
Vorrei partire dal tema
delle fonti. Lasciando da parte quali
sono, come ottenerle e come curarle mi soffermerò piuttosto a riflettere su
"a che cosa servono".
Una prima domanda che
viene da pormi è la seguente: le fonti, in questo ambito dell’informazione
religiosa, servono per raccontare l'istituzione Chiesa (il suo sviluppo, il suo
dinamismo, i progressi, in definitiva le novità che la riguardano) o piuttosto
i retroscena (ciò che è sconosciuto ai più, ciò che è spesso difficile da
provare, ciò che in definitiva può non essere vero ma è verosimile)?
E la risposta che mi do è
che la diffusione/pubblicazione del solo retroscena, isolato da ogni contesto e
presentato in solitudine, non dovrebbe assurgere al rango di informazione;
siamo infatti di fronte ad un dato parziale, che sfugge al racconto generale di
un avvenimento o di un cambiamento in atto, e serve soltanto, nel migliore dei
casi, a sparare nel mucchio o a solleticare curiosità.
Raccontare la complessità
Lo stesso retroscena, 99
volte su 100, è fatto di contenuti negativi, certamente parziale rispetto alla
complessità dell’Istituzione nel suo insieme e per le eventuali persone che vi
sono coinvolte. Eppure, la vera sfida non è raccontare le "cose
brutte" della Chiesa (del Papa, della Curia, dei Vescovi e giù a scendere
fino al sagrestano), il difficile è raccontare la complessità di un’istituzione
millenaria che risponde alle molteplici inquietudini della società in tutto il
mondo. Piuttosto che appiattirsi sulle bad news,
che richiamano di per sé l’attenzione in modo istintivo, occorre invece portare
in primo pianole informazioni rilevanti, anche quelle che di primo acchito non sembrano
interessare a nessuno, eppure sono quelle con cui interpretare la realtà in cui
viviamo con uno sguardo più profondo e adeguato alle situazioni di oggi.
Cercarle costa, e
richiede di "uscire"...
Uscire… dal Vaticano
Uscire, innanzitutto,
...dal Vaticano, quindi dallo strettamente istituzionale. Superare cioè una
concezione della professione dell'informatore religioso per la quale siamo solo
interessati alle beghe di palazzo, a ciò che accade al di là delle Mura, e ci
preoccupiamo quasi niente di ciò che avviene invece al di qua del Tevere.
Questa "uscita"
coinvolge anche i nostri schemi mentali... e ci chiama a guardare le cose con
una visione più ampia; ad ascoltare di più e a giudicare di meno – direbbe Papa
Francesco – e non per moralismo, ma per correttezza professionale: prima di
poter raccontare, devo aver compreso un minimo dei fatti che voglio narrare, e
per comprenderli bene devo mettermi all'ascolto, azionare i sensi (vedere?),
avvicinarmi il più possibile. Se resto chiuso nella mia torre d'avorio, non
rendo un buon servizio né agli altri né a me stesso.
Guardare al popolo
Nel caso della Chiesa,
non possiamo prescindere dal fatto che ci troviamo di fronte ad una realtà
duplice, che ha una componente istituzionale (il Vaticano e le sue gerarchie) e
una componente umana e spirituale (il Popolo di Dio, la gente della strada e la
sua fede). Come vaticanisti oggi dovremmo guardare senz’altro ad entrambe, ma
forse un po' di più al popolo, a coloro che edificano la Chiesa con la loro
carne. Devo dare atto a Luigi Accattoli di aver intrapreso,da tempo immemore,
questo tipo di esperienza, raccogliendo quelle belle “storie di Vangelo” da
uomini e donne della strada, che testimoniano veramente ciò che dicono di
professare, e che lui ha raccolto in diverse pubblicazioni.
Uscire significa anche
verificare quanto l'indirizzo del Magistero attecchisce in mezzo a questo
popolo, e dove particolarmente, fosse pure in Africa o ad Haiti.
Opinioni a tutti i
costi
Si dice spesso che la
gente non legga, che il numero delle tirature sia in perenne erosione, il mondo
editoriale alla deriva; c'è insomma crisi di lettori. Ma siamo sicuri che le
cose stiano veramente in questi termini? Piuttosto, leggendo alcune cronache e
vedendo certi modi di fare informazione, mi viene il dubbio che ci sia crisi
di... scrittori. Gli stessi scrittori che dovrebbero piuttosto “uscire”,come
accennavamo prima.
Se vogliamo riconquistare
il lettore, forse dobbiamo imparare a rifuggire dalla tentazione del fare
opinione a tutti i costi e spesso a buon mercato. Un giornalista che fa solo
l'opinionista ha smesso di cercare i fatti, le storie, e la sua
"opinione", se è in buona fede, è pur sempre limitata, perché non è
più irrorata dal necessario contesto che ti porta –per continuare l’esempio– fuori dalla tua torre
d'avorio.
Voglio dire, è giusto
esprimere opinioni, meno giusto è semplificare la realtà in base alla propria
limitata esperienza. Ripeto: non c'è nulla di male a comunicare agli altri il
proprio punto di vista personale poiché è una tendenza tipicamente umana. Però
semplificare è un modo – sbrigativo, direi– per aver meno paura della
complessità e della libertà e così non assumersi alcuna responsabilità concreta.
Lasciarsi interrogare dai dubbi (quelli veri!)
Allora dovremmo imparare
ad accontentarci un po' meno di ciò che ci viene dalla nostra esperienza che,
per quanto illuminata, è pur sempre limitata.Sintetizzando in slogan ciò che ho detto,
occorre imparare a: 1) capire oltre le apparenze; 2) pensare di non essere mai
arrivati; 3) lasciarsi interrogare dai dubbi (quelli veri!).
Tornando Oltretevere e al
Papa: per chi crede Egli è una guida ed è il pastore che conduce il gregge,
successore del primo degli Apostoli e Vicario di Cristo; per chi non crede è il
leader di 1 miliardo e 300 milioni di cattolici nel mondo: in entrambi i casi
merita rispetto!
Quanto alla fonte
primaria dell'istituzione Chiesa, possiamo dire che con gli anni è diventata un
po’ più trasparente; ultimamente forse un po' più tempestiva; e sicuramente
cerca di aggiornarsi continuamente per migliorare...
Non esistono fake
news
La sfida per noi
giornalisti, piuttosto, è quella di rendere fruibile quella fonte, senza
alterarla, al di fuori dei canali ufficiali: se il Papa ha detto "ciao
Pippo", ed ho la possibilità di verificare che effettivamente l'ha detto,
potrà non piacermi, potrò non essere d'accordo, ma del Papa sempre il suo
"ciao Pippo" devo trasmettere, altrimenti – professionalmente – sto
barando...
E probabilmente sto
alimentando – e così mi collego al punto successivo – quel bacino di fake-news di cui oggi il mondo, anche
quello professionale, sembra tanto lamentarsi. Ma a lungo andare, per il tanto
parlarne e il poco applicare, pure le fake-news
si stanno convertendo piuttosto in qualcosa di fashion, perché se le cito o le condanno fa trendy.
Allora dirò una cosa un
po’ fuori dal coro: le fake-news non
esistono! Una notizia o “è” ed è vera,oppure “non è”. E se “non è”, non esiste
e non può neanche essere falsa. È tutta un’altra cosa: manomissione, inganno,
un testo che scimmiotta l’informazione e la notizia… la possiamo chiamare come
vogliamo, ma proviamo a recuperare anche l’importanza del linguaggio, in modo
da riconquistare la dignità del lavoro che facciamo.
Fonti confidenziali
Un campanello d’allarme
che ci deve far riflettere, visto che parliamo di fonti, è legato a tutto quel
mondo delle interviste o rivelazioni concesse off–the-record (in via confidenziale). Se quello che mi stanno
raccontando è “scottante”, io mi domanderei sempre: perché questo Cardinale o
funzionario di Curia lo sta dicendo proprio a me? E perché se la cosa merita
attenzione, la sta rivelando in maniera anonima? In questo caso io proverei ad
ascoltare – cosa che comunque devo sempre fare – la cosiddetta “terza campana”.
Ciò non toglie che quelle
informazioni che ho appena acquisito, casomai in forma anonima, mi servano come
contesto per comprendere meglio quale sia il clima che si respira nei sacri
palazzi. Ma se butto in pagina questo presunto dato scottante, isolato da tutto
il resto, mi sto rendendo probabilmente complice di un regolamento di conti, o
nella migliore delle ipotesi di un pettegolezzo da comari.
Il ruolo dei social
Oggi si parla tanto dei social e della rivoluzione che questi
hanno portato anche nell’ambito dell’informazione. Sappiamo bene, se guardiamo
alle ultime statistiche, che circa il 35% delle persone oggi si informa
principalmente attraverso Facebook e
solo occasionalmente ricorre ai giornali. Si dice pure che sono proprio i social
i maggiori diffusori delle cosiddette bufale.
Se riflettiamo un attimo,
possiamo convenire che non può essere colpa del
contenitore; farlo sarebbe allontanare il problema e ritirarsi (ancora una
volta) nella propria torre d’avorio delle comodità. Il contenitore “vive” di
quello che ci mettiamo dentro. E a riempirlo siamo noi, liberamente: nessuno ci
obbliga a postare, infatti, una foto che ci ritrae o una dichiarazione d’amore.
Allora sopraggiunge la
sfida, e una domanda: che uso vogliamo fare dei social? Intanto, per il
giornalista, consultarli significa ampliare il proprio campo di indagine,
perché è come avere a portata di mano un’agenzia di stampa 24 ore al giorno, e
questo è sicuramente un regalo.
Per quanto riguarda il
problema delle bufale o delle informazioni non verificate, si apre un vasto
mondo in cui operare: portare anche in questo ambiente quel contributo di
interpretazione della realtà, soppesando dati e ampliando il contesto, fornendo
documentazione e approfondendo le discussioni, oltre ad avere un dialogo
diretto e “senza filtri” con i lettori o con i protagonisti delle vicende che
potremmo/vorremmo raccontare.
Una professione
cambiata
Senza dubbio, grazie ai
social – e per fortuna o purtroppo, direbbe qualcuno –, la professione è
cambiata. Dal momento che tutti siamo abilitati
ad acquisire globalmente dati e contenuti, ciò dimostra che non esistono più (forse
perché non ce n’è più bisogno) i cosiddetti mediatori
in senso classico, coloro che si frapponevano tra l’accaduto e il destinatario
dell’informazione, presentandone una propria versione. Oggi ciascuno raggiunge
direttamente “il luogo dell’accaduto” e ne legge i risvolti secondo la sua
sensibilità.
Qui però subentra una
necessità, ed è quella dell’educazione.
Educare le persone, i cittadini, a “leggere” la realtà; educare se stessi, in
quanto professionisti dell’informazione, a saperla leggere e raccontare.
Educare la propria capacità “visiva” (di comprensione), educare a fornire le
necessarie chiavi di lettura.
Formare e accompagnare le persone
Insomma, in questo nuovo
contesto comunicativo e informativo siamo chiamati a formare le persone, ad
accompagnarle, a chiarire loro i dubbi piuttosto che alimentarli, a
semplificare i dati complessi. Noi non parteggiamo, offriamo
piste interpretative per comprendere meglio.
Poiché non siamo più
“padroni” dell’informazione, il nostro contributo di tempo ed energie deve
essere disinteressato; dobbiamo amare la verità, che però è sempre più ampia rispetto
a noi, non siamo noi! Può tornare utile leggersi o rileggersi, per chi lo avesse
già fatto, il Manifesto della
comunicazione non ostile firmato a Trieste il 17 febbraio. Si tratta di 10
spunti consapevoli e altrettante applicazioni pratiche – per qualcuno forse
scontati – che possono orientare la professione.
Ogni tanto, quindi, fa
bene esercitarsi a lottare contro possibili atteggiamenti patetici e
autoreferenziali; a superare quei tic
che ci rendono monotematici nei racconti della realtà che facciamo o
unidirezionali rispetto ai soggetti su cui scriviamo. Il giornalista non è un
aizzatore di tifoserie precostituite e pre-elaborate. Piuttosto, è uno che
“rombe le bolle”, per usare un termine social,
uno che aiuta ad uscire da quelle famose echo chambers
(stanze degli echi) dove siamo già tutti d’accordo e ci osanniamo a vicenda.
Ecco, questo intendo
quando faccio riferimento agli educatori e all’educazione in ambito
informativo. Un lavoro da veri artigiani.
Termino. A proposito di artigianato, duole dirlo, ma un’altra consapevolezza che dobbiamo assumere, se guardiamo allo stato odierno della professione giornalistica – e a tutte le professioni in generale–, lo dico con il massimo rispetto per tutti, è che negli anni è andata scemando la figura del garzone, colui che nella bottega dell’artigiano trascorreva la giovinezza per imparare il mestiere e, una volta che il mastro si ritirava per godersi la pensione, ne rilevava l’attività e soprattutto l’esperienza.
Forse sarebbe il caso di
provare a riallacciare questo cordone ombelicale reciso, desiderando lasciare
eredi, provando ad essere un po’ meno gelosi della propria esperienza e un po’
più educatori, formatori, insomma maestri nella professione.
Solo così potremmo dire
di aver contribuito a cambiare un pezzo di mondo.
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