"Abbiamo visto che la Chiesa anche oggi benché soffra tanto, come sappiamo, tuttavia è una Chiesa gioiosa, non è una Chiesa invecchiata, ma abbiamo visto che la Chiesa è giovane e che la fede crea gioia" (Benedetto XVI, 29 luglio 2010)

mercoledì 30 giugno 2021

Comunicazione è persuasione: la “disputa felice” come antidoto all’odio online


Oggi si è abituati a un linguaggio immediato, fluido, spesso “scomposto”, utile nell’immediato per una comprensione più legata a uno scambio ludico. La retorica offre invece ai cittadini di oggi e domani, gli attrezzi necessari per imparare a parlare bene, farsi comprendere, saper ascoltare ed essere ricordati, anche online

Articolo apparso su Agenda Digitale il 22 giugno 2021

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Nell’epoca della disintermediazione e dell’interconnessione, dove chiunque è abilitato a dire la propria senza filtri o esplicito contraddittorio, assistiamo a un sovraccarico informativo che rende problematica la convivenza tra gli individui, che faticano a interagire fruttuosamente.

Per ovviare a un tale sostanziale “dialogo tra sordi”, appare quanto mai necessario suggerire il ripristino dell’insegnamento della retorica sin dall’età della formazione scolastica di base.

Al centro di questa riflessione, ci saranno quindi gli intrecci tra comunicazione e persuasione, con particolare riferimento alla riflessione aristotelica sulla retorica come arte del convincimento e su alcune proprietà intrinseche che rendono le idee altamente diffusive (contagiose). Vogliamo analizzare anche l’importanza della rete come luogo di comunicazione per eccellenza poiché racchiude in sé ogni facoltà espressiva dell’uomo. Tra queste, si approfondisce una forma “deviata” di persuasione quale il litigio online, aspetto meno aggressivo ma comunque rappresentativo di hate speech e la proposta della disputa felice del filosofo Bruno Mastroianni, come risposta alle contrapposizioni e per una sana ed efficace persuasione.

Abilitati a comunicare (e ad argomentare)

Siamo nati per comunicare. O meglio, siamo nati da un atto comunicativo, poiché la vita ci è stata trasmessa, e viviamo per comunicare. Per trasmettere a nostra volta a quanti ci circondano ciò che ci appartiene dal più profondo: emozioni, sentimenti, attese e le tante precomprensioni del mondo, che passo dopo passo impariamo ad acquisire per poi condividere. Si tratta di un’abilitazione che possediamo in maniera innata, che ci distingue dagli altri esseri viventi animali: siamo gli unici ad essere dotati di uno strumento come il linguaggio, attraverso cui realizziamo continui processi persuasivi. Ed è proprio la persuasione l’elemento che caratterizza il rapporto comunicativo con i nostri simili, mediante la quale proviamo a stabilire, con gli stessi, relazioni di qualità, in quanto animali che vivono – e hanno bisogno di vivere – in società [cfr. Aristotele, Politica].

Come insegna tutto il pensiero aristotelico, le nostre esistenze sono disseminate di argomenti comuni che impariamo a conoscere proprio perché diffusi, e rispetto ai quali facciamo sostanzialmente quattro cose: critichiamo o sosteniamo un argomento, ci difendiamo o accusiamo. Queste sono fondamentalmente le attività tipiche della retorica, che l’uomo può esercitare perché in possesso del cosiddetto logos: da una parte si lascia persuadere e dall’altra persuade. Pur essendo una predisposizione naturale dell’uomo, si tratta comunque di un qualcosa che bisogna apprendere (techne). Siamo pertanto di fronte ad un sapere orientato al fare. Dalla persuasione si passa allora all’azione. O, se vogliamo, non esiste persuasione senza azione, dato che il discorso persuasivo è finalizzato ad un giudizio: se non ci fosse un giudizio da esprimere ci troveremmo di fronte a qualcosa di già acquisito e insindacabile, come potrebbe essere ad esempio un teorema. [cfr. Piazza, 2004, pp. 139-175].

Per Aristotele, d’altro canto, il tipo di verità con cui ha a che fare la retorica è una verità incerta, è eikos (verosimile, probabile…), un qualcosa di non pienamente definito, che richiede di essere scoperto, immaginato, congetturato. Qui si inserisce anche l’elemento del desiderio, che è il vero motore che spinge le persone a fare qualcosa. Non a caso, nell’Etica a Nicomaco, lo stagirita qualifica l’animale umano come mente che desidera e desiderio che ragiona. Perché possa essere efficace, il discorso persuasivo deve perciò tenere insieme sia la sfera cognitiva che la sfera emotiva. Mentre la necessità di persuadere è uno dei modi per essere felici. [Ibidem].

Se ci interroghiamo sul processo attraverso cui si realizza la persuasione vediamo che al vertice di tutto ci sono le credenze delle persone, le loro precomprensioni sul mondo, ed è un qualcosa di culturale e biologico legato anche all’evoluzione (adattabilità). Lo scopo della persuasione è dunque quello di provare a “modificare” queste credenze e i comportamenti che ne derivano, e ciò si può verificare soltanto dopo aver “compreso” come funziona la mente umana, la sua modularità, quelle proprietà caratteristiche che rendono gli umani predisposti a subire l’influenza di particolari tipi di rappresentazioni rispetto ad altre.

L’altro elemento del processo persuasivo riguarda la parte che potremmo definire più pratica e attiva, ossia l’argomentazione: quell’insieme di “strategie” che, da una parte, incidono direttamente su determinate proprietà della mente umana (rispondendo ad esempio con delle “prove” a ciò che viene affermato) e dall’altra rendono piacevole questa azione “dibattimentale”, prendendo in prestito un termine della procedura giudiziaria.

Infine, la narrazione, di cui parleremo nel prossimo paragrafo, per dire l’aspetto poetico della retorica, in cui si fa leva sui fattori linguistici per appassionare l’interlocutore.

Come ben spiega sempre Piazza [2004, p. 10], sono usi persuasivi del linguaggio tutti quelli il cui obiettivo finale consiste nel cambiamento dei desideri, degli atteggiamenti, delle opinioni o finanche dei comportamenti dei nostri interlocutori. Che però vanno lasciati liberi di darci ascolto oppure no. Ogni volta che abbiamo a che fare con il linguaggio stiamo quindi facendo retorica, e non esistono discorsi che non siano retorici. Quando ci approcciamo a questa disciplina bisogna però chiarirsi sulla definizione: non si tratta di dimensioni autonome che si sono imposte lungo i secoli andando a segmentare quella che era la proposta iniziale di Aristotele – le tre “vie alternative” della dialettica (dimensione logico-argomentativa), della poetica (dimensione stilistica) ed ermeneutica (dimensione emotiva-patetica) –, ma di un “sistema unitario” di riflessione sul discorso persuasivo, che è intreccio tra linguaggio, cognizione, desiderio, azione e responsabilità [cfr. Piazza, 2004].

Nulla a che vedere, insomma, con la proposta di razionalisti, empiristi, positivisti e retorici dell’antiretorica, per i quali esiste una verità autarchica evidente di per sé, auto-persuasiva, ed un linguaggio sostanzialmente neutro. Niente a che fare neppure con la visione platonica della retorica come “luogo dell’inganno” o come processo ornamentale rispetto a verità scoperte altrove [cfr. Ibidem].

L’auspicio è dunque quello di “ritornare ad Aristotele” e alla sua idea di retorica, comprendendo però che la funzione specifica non è tanto il persuadere in sé, ma lo scoprire che cosa ci può essere di persuasivo in ogni argomento. Senza opposizione tra il “proto”, che privilegia l’elocutio e in cui è centrale la poetica e l’uso delle figure retoriche (che non sono “manipolazione”), e la “prova”, che privilegia invece l’inventio e la ricerca di argomenti in un processo più dialettico e logico-argomentativo.

Quando comunichiamo, dunque, stiamo esponendo una verità che non è necessariamente evidente né auto-persuasiva, per cui ha bisogno di essere provata e resa credibile mediante la strategia persuasiva, che per Aristotele si dipana attraverso l’ethos (carattere dell’oratore: degno di fede, saggio, virtuoso), il pathos (emozione suscitata nell’ascoltatore) e logos (l’argomento del discorso, ciò di cui si parla).

La narrazione e il contagio delle idee

Accennavamo pocanzi all’argomentazione, alle prove e alla verità. Per essere positivamente convincenti bisogna avere evidentemente dei “buoni argomenti”, e il potere di convincimento di questi ultimi passerà senza dubbio attraverso la verità: la verità di chi parla e la disponibilità di chi ascolta ad assumere quegli argomenti come veri. In questo consiste fondamentalmente la narrazione, che da un punto di vista ermeneutico si attualizza attraverso il linguaggio.

Non a caso, tutto l’essere che può essere compreso è linguaggio, secondo una intuizione di Gadamer [cfr. Piazza, 2004, cap. 4]. Esso è il luogo e l’orizzonte all’interno del quale gli uomini fanno esperienza del mondo e si intendono su di esso. Ciò fa necessariamente leva sulle passioni umane, ma per raggiungere tale obiettivo occorre fornire ragioni accettabili, seppur non definitive.

Il “mezzo” con cui l’uomo prova a fornire queste ragioni attraverso il linguaggio è il raccontare storie, che per come è conformato il nostro cervello assumono uno straordinario potere persuasivo. Senza fare del tecnicismo, Corballis parla di una “mente che vaga” (wandering mind), che spazia cioè tra un polo all’altro dell’esistenza, potemmo aggiungere, e che caratterizza in modo univoco l’uomo. Egli sostiene che addirittura raccontiamo storie ancora prima di comunicarle agli altri, già nel momento in cui percepiamo dei fenomeni all’interno di noi, dandogli una veste narrativa.

Questo spiega anche perché la narrazione ha un carattere fortemente persuasivo e ciò dipende inscindibilmente dall’argomentazione, dal modo in cui proviamo a portare all’esterno di noi questo dinamismo narrativo, assemblando tutto quell’insieme di affermazioni e prove legate poi da una coerenza logica e razionale [cfr. Bilandzic – Busselle, 2013]. Quanto più l’ascoltatore sarà in grado di “ricostruire” la nostra storia nella propria mente tanto più l’argomentazione risulterà persuasiva. Qui rientra anche il concetto di experientiality, per cui le narrazioni sono prefigurazioni del mondo interiore dei personaggi e creano identificazione (empatia) [cfr. Ibidem]. Bilandzic e Busselle accennano inoltre al meccanismo della controargomentazione (counterarguing) da parte del nostro interlocutore, che la persuasione dovrebbe essere in grado di inibire proprio attraverso il potere della narrazione di una storia; e della imagery (“immagini mentali”): le parole narrative sono in grado di generare “scene visive” nell’interlocutore, attivando così uno strumento di persuasione di forte presa [cfr. Ibidem].

Tali dinamiche sono soltanto alcuni degli elementi che rispondono al perché l’essere umano viene generalmente persuaso – oltre a, come abbiamo visto, persuadere gli altri –, e rispondono in ultima analisi a quel “contagio culturale” di cui siamo imbevuti come uomini, ben sviluppato da Arielli e Bottazzini nel loro “Idee virali”. Altri studi, come quelli riportati nel saggio di Falk e Scholz [2018], includono anche l’aspetto delle neuroscienze, speculando ad esempio sulle dimensioni di costi e benefici che incidono rispetto a una decisione, ma anche il grado di esposizione, le motivazioni e il livello di consapevolezza cosciente. Tutte modalità di apprendimento sociale che portano ad aggiornare le proprie preferenze e le proprie azioni, generando effetti persuasivi all’interno di sistemi di valori socialmente riconosciuti.

Se è vero, dunque, come sostiene Pinker, che la comunicazione non è un processo automatico, è altrettanto vero che la cultura è parte della natura umana, ragion per cui, in quanto legati a continui e molteplici flussi di informazioni, alcune di queste, trasmesse ripetutamente, si propagano sotto forma di rappresentazioni mentali a gruppi di soggetti e finiscono per diventare pubbliche [Sperber, 1999]. Questo spiega in sostanza – e anche molto sinteticamente – come avviene nella società la trasmissione delle idee, ben sapendo che esistono “ecosistemi di idee e pensieri la cui capacità di diffusione garantisce il successo dell’ecosistema stesso e quindi degli individui che lo abitano” [Arielli – Bottazzini, 2018, p. 54]. La motivazione legata alla diffusione appare però con una duplice funzione, una autoregolamentativa della propria appartenenza e individualità (segnalo la mia identità condividendo con altri lo stesso punto di vista mentre garantisco la mia eccezionalità) e l’altra di costruzione dell’ambiente culturale, che è costituito dalle menti degli altri che vi appartengono e a cui faccio riferimento [cfr. Ibidem].

Senza dilungarci molto su questo, valgano come sintesi i principi generali individuati negli studi sulle leggende urbane di Chip e Dan Heat [cit. Ibidem, p. 74], in base ai quali certi contenuti “aderiscono” alla nostra mente. Sono sei e rispondono all’acronimo Succes. A rendere memorabile un contenuto è innanzitutto la sua semplicità (simple) ma anche se è ben organizzato (concrete) e strutturato all’interno di un arco narrativo coerente (credible). Evidentemente, c’è bisogno pure di una intensità emotiva del racconto (emotional) e la presenza di dettagli molto specifici che rendono la storia sorprendente (stories). Ci sono inoltre altre tendenze, che Sperber definisce “attrattori culturali”, finalizzati ad affinare il processo di selezione delle idee, basati sia su meccanismi cognitivi e motivazionali della mente umana che su filtri culturali specifici [cfr. Ibidem, p. 80]. Tra questi va segnalata l’emozionalità dei contenuti, la preferenza per i concetti controintuitivi, l’organizzazione gerarchica e progressiva delle informazioni per renderle semplici da ricordare, l’assimilazione a conoscenze e stereotipi già presenti in una determinata cultura, la tendenza a preferire storie riguardanti persone e informazioni di natura pratica, infine la preferenza per le novità.

Vediamo adesso come tutto questo incide nell’epoca odierna caratterizzata dalla disintermediazione e dall’iperconnessione, e come la rete sia un luogo comunicativo per eccellenza, dove la persuasione in generale e la possibilità di argomentare in particolare ne sono fattori insiti.

La rete, comunicazione per eccellenza

Come ben spiegano Gheno e Mastroianni nel loro “Tienilo acceso” [2018], i social e il web in generale non sono un qualcosa di extraterrestre, imposti quindi da un invasore o frutto di un complotto, ma la conseguenza della nostra decisione libera di voler ampliare la possibilità di entrare in contatto con gli altri diminuendone le distanze. Un dinamismo che accompagna da sempre l’esistenza umana e che le tecnologie hanno reso sensibilmente più veloce. Questa evoluzione è legata strettamente alla comunicazione, e in un simile panorama è chiaro che tutti sono chiamati ad acquisire quelle competenze di base che gli permettano, da una parte, di “capire il mondo”, ma anche di farsi capire dagli altri e capire l’altro. [cfr. Gheno-Mastroianni, 2008, pp. 19-22]. Come è evidente, qui si palesa una (ulteriore) sfida per la vita online: la necessità di imparare a comunicare nella diversità di vedute, sapendo ascoltare le parole degli altri e trasmettendone di proprie che siano efficaci e piene di senso.

Ciò fa il paio con la riscoperta del potere della parola e del linguaggio, e quindi del potere di costruire – o distruggere –, le relazioni con gli altri, siano a questo punto online ma anche offline, fondamentalmente onlife, nella felice definizione di Luciano Floridi. Tutti elementi che hanno insito l’aspetto retorico e persuasivo, come abbiamo illustrato nei paragrafi precedenti. A differenza che nell’online si accentua il bisogno di “comunicare bene”, dato che si hanno a disposizione soltanto le parole, mancando le espressioni del viso, il tono della voce o una postura da assumere, per cui il fraintendimento è dietro l’angolo. Un ausilio potrebbe giungere dalla proposta del linguista e filosofo Paul Grice, che Gheno e Mastroianni sintetizzano nel loro libro, e cioè l’essere sinceri (massima della qualità) parlando degli argomenti che si conoscono bene; il non dire troppo o troppo poco (massima della quantità), guardando al giusto mezzo; l’essere pertinenti (massima della relazione), poiché lo svincolamento rispetto alla questione richiesta non depone mai a favore di chi lo pratica; e la chiarezza (massima della modalità), andando alla ricerca delle giuste sfumature per far capire bene ciò che intendiamo dire [cfr. Ivi, pp. 66-68].

Sta di fatto che queste possono essere delle regole di base per condurre anche in rete un discorso veramente persuasivo. Il problema si pone quando subentrano altri fattori che ci fanno sbandare nel percorso, come vediamo nel punto successivo.

Il litigio (online) quale forma “deviata” di persuasione

“Una polis che voglia realizzare il suo fine – vivere bene – non può fare a meno della retorica e un animale linguistico e cittadino non può che essere anche animale retorico [Piazza, 2004, p. 185]. Eppure, l’esperienza dimostra che non sempre nella polis si persegue questo obiettivo, e una delle evidenze più immediate è possibile trarla dall’esperienza di litigiosità a cui assistiamo in rete. Se è vero che comunichiamo, e persuadiamo, per provocare un “cambiamento” nel comportamento di coloro con i quali entriamo in conversazione, sicuramente potremmo dire che il litigio, e il litigio online, è una forma “deviata” di persuasione. Sembra più simile ad un atto di forza, seppur non fisico, per provare a prevalere sugli altri.

È chiaro che nell’arena comunicativa interveniamo come attori che partono da punti di vista differenti, addirittura quando in linea generale la pensiamo allo stesso modo. Immettere nella conversazione uno spirito litigioso equivale sostanzialmente a voler convincere l’altro con la forza, e questo accade perché in fin dei conti facciamo a meno del vero spirito dell’argomentazione, che è quello di fornire prove a sostegno delle nostre tesi. Insomma, il litigio avviene proprio perché abbiamo innata questa capacità di persuasione (voler convincere l’altro della “bontà” delle nostre idee) ma diamo priorità al risultato piuttosto che al percorso per arrivarci. Dimenticando che lo spirito del dibattito argomentativo è proprio quello di non mettere mai il punto “fine” alla discussione, ma alimentarla continuamente con nuovi pareri, punti di vista e stimoli, in un processo contro-argomentativo costante che è fruttuoso per ciascuno dei disputanti.

Discorso a parte meriterebbe tutta la questione dell’hate speech, di cui a nostro giudizio il litigio esacerbato ne è una delle forme, seppur più mitigata. Per approfondire questo aspetto rimandiamo al libro di Gheno – Mastroianni [2018, prima parte, cap. 1].

Ma perché litighiamo online? Una prima risposta potrebbe venire dal mondo dei media classici, che hanno prodotto sul pubblico una sorta di educazione alla contrapposizione, dato che hanno sempre avuto una certa preferenza per lo scontro come modalità accattivante di narrazione su certe tematiche [cfr. Contreras, 2006]. Lo vediamo ad esempio nei cosiddetti fattori di notiziabilità, dove il tema del conflitto è quello più disponibile e a buon mercato, ma è anche la quotidiana esperienza che facciamo nel leggere un quotidiano o nell’ascoltare un talk in televisione, dove ogni questione complessa viene ridotta ad un semplice pro e contro, sia nel formato dell’impaginazione che nello schieramento degli ospiti televisivi. Con ben spiega Mastroianni, “questo essere continuamente sottoposti alla ‘cura conflittuale’ ci ha portato a sviluppare la tendenza a schierarci come primo riflesso del nostro intervenire in un dibattito: ‘sono d’accordo’ o ‘non sono d’accordo” [2017, p. 61]. In questo modo, la realtà delle discussioni si è trasformata in schieramenti omogenei o eterogenei rispetto alla propria posizione, divenendo un campo di raccolta di provocazioni, per cui si termina con il rimanere offesi e stizziti.

Oltre alla conseguenza ad intra (tra i litiganti) bisogna però considerare anche la conseguenza ad extra. Si finisce per dimenticarsi praticamente della moltitudine silenziosa – l’uditorio direbbe Perelman nel suo Trattato dell’argomentazione – che assiste e non ricava alcun beneficio dal processo argomentativo litigioso: non viene insomma né persuaso (se pensiamo a un uditorio “particolare”) né convinto (se l’uditorio è quello “universale”, l’umanità intera, come ideale di riferimento) [cfr. Piazza, 2004, pp. 55-58].

Ci sono evidentemente altre dinamiche alla base di questa “deviazione” della persuasione, ed hanno a che fare con i concetti di omofilia, polarizzazione, camere degli echi. Se da una parte siamo predisposti a orientarci verso chi ci è simile, dall’altra ciò è sufficiente per creare estraneità con chi ci è dissimile, conducendo a quelle situazioni di vero e proprio “odio”, esacerbando le divergenze, rompendo le relazioni e generando divisioni culturali sempre più marcate [cfr. Arielli – Bottazzini, 2018, pp. 36-38].

La “disputa felice” come risposta per una sana persuasione

Come è possibile allora dissentire in una conversazione, generare un dibattito che possa essere veramente persuasivo per gli interlocutori e l’uditorio, senza cadere nella “deviazione” del litigio? Ci sembra che la proposta del filosofo Bruno Mastroianni sia una buona sintesi che tiene insieme tutte queste esigenze, e riguarda la disputa felice. Assodato che occorrono delle competenze di base per essere comunicativamente efficaci in qualunque situazione ci si presenti, e che nel mondo in cui siamo immersi ciò si traduce con ragionamenti brevi e incisivi, pieni di significato ed espressivi, la disputa felice punta a raggiungere il massimo risultato nella dinamica dibattimentale tra relazione (rapporto tra i disputanti) e contenuto (il merito della questione). Siamo quindi di fronte a discussioni comunque vivaci su determinati argomenti, ma l’aggettivo felice non va inteso in accezione buonista o cortese – come spiega l’autore – quanto nell’ottica di una contesa che dà soddisfazione e migliora la vita dei disputanti. Il principio guida è perciò quello di “mantenere l’attenzione, le energie e la concentrazione sui temi e sugli argomenti in oggetto, senza andare a rompere la relazione tra i due disputanti proprio per farsi nutrire dalla differenza che ne emerge” [Mastroianni, 2017, pp. 21-22].

Come disinnescare allora il conflitto quando due che stanno argomentando iniziano a dissentire in maniera accesa, aumenta la reattività e l’ostilità, la polarizzazione e altri atteggiamenti che nel tempo abbiamo imparato a riconoscere sui social? La disputa felice prevede di agire su tre livelli per creare un clima favorevole al confronto, e alla buona persuasione. Il primo livello è quello di superare la mentalità di contrapposizione a cui siamo stati abituati dai media, come abbiamo illustrato poco sopra. Il secondo livello consiste nello scegliere consapevolmente specifici modi di esprimerci nell’interazione con l’altro, ad esempio evitando il dissociarsi (“non è così”, “questo è sbagliato”, “questo è falso”), lo sdegno (“non tollero che si dica così”, “è inaudito”), i giudizi ad hominem (“ti sbagli”, “non capisci”), le generalizzazioni (“questo è tipico di voi cattolici/atei/stranieri/professori”) o le parole d’odio… poiché sono tutti approcci conflittuali che provocano effetti belligeranti in chi ascolta. Infine, occorre imparare a lasciar cadere le espressioni altrui che portano a reagire in modo ostile, esercitando quando necessario un salutare “potere di ignorare”, ben consapevoli che spesse volte, soprattutto in rete, una non risposta è di per sé un messaggio, probabilmente anche più efficace di una esplicita reazione alla provocazione ricevuta [cfr. Ivi, pp. 57-76].

Così come è concepita, la disputa felice si presenta allora come un lavoro di rielaborazione (reframing) delle proprie idee e necessita della disponibilità a voler uscire dal proprio mondo per entrare nel mondo dell’altro. Questo richiede, nell’idea di Mastroianni, quattro fondamentali passaggi che ciascun “persuasore” deve compiere se vuole riuscire nell’intento di procurarsi conoscenza in modo piacevole. Innanzitutto, essere sé stessi, ossia affidarsi alle proprie risorse di comunicazione e fuggendo da proiezioni edulcorate e falsate delle proprie capacità o competenze: “non percepirsi infallibili, non pensare di avere sempre e solo argomenti incontrovertibili, riconoscere quando l’altro è più convincente, rende più autorevoli e apprezzabili” [Ivi, p. 99]. Il secondo atteggiamento è quello di prendere sempre sul serio le argomentazioni dell’altro (uscire dalla propria echo chamber) e porre a sé stessi, con sincerità, quelle domande che collaudano la propria comprensione della realtà. Quando si è invece di fronte a un clima pregiudicato e veramente ostile, il modo per uscirne è quello di “sovvertire la prospettiva”, divincolandosi dalla posizione di antagonista, facendo leva se necessario anche sull’ironia e sull’autoironia. Infatti, “essere distaccati dai propri argomenti, saper ridere di sé stessi, oppure smorzare la tensione con una battuta, è una valvola di sfogo che fa calare la pressione e riabilita la discussione” [Ivi, p. 107]. Infine, l’ingrediente di fondo che non deve mai mancare è il “senso comune”, ossia il fare riferimento il più possibile a ciò che può essere riconosciuto in maniera universale. Ciò richiede anche farsi carico dell’onere della prova davanti agli altri e non rifiutare nessuna delle obiezioni, pur quando si parla di cose risapute, ben sapendo che “la presenza di opposizione è il motore del discorso” e permette di articolare più approfonditamente il ragionamento.

Nel libro Litigando si impara, Mastroianni si spinge oltre e riassume nelle dita della mano, con una immagine a nostro giudizio riuscita, le principali virtù dell’argomentazione, facendo intendere che la disputa felice è un qualcosa “a portata di mano” e che chiunque la può mettere in atto. Il mignolo richiama l’umiltà, il valore del limite, per dire che “siamo in grado di sostenere senza litigare solo quel poco che siamo e che sappiamo” [Mastroianni, 2020, p. 113]; l’anulare, il dito della fede nuziale, richiama il legame, quindi il valore della fiducia da non disperdere mentre si dissente, consapevoli che bisogna “curare anzitutto la relazione tra le persone” [Ivi, p. 114]; il medio richiama invece la necessità di rifiutare l’aggressione, disinnescando gli insulti e le provocazioni per restare sull’argomento di contesa; l’indice è il dito che sceglie su cosa puntare l’attenzione e quindi è strettamente legato all’argomento, purché sia oggettivo, concreto, rilevante e consistente; infine, il pollice, il dito del like sui social, che però è veramente valorizzato quando nella disputa è orientato verso sé stessi, come forma di autoironia, ossia capacità di vivere le cose con distacco senza prendere troppo sul serio, in fin dei conti, le proprie e le altrui opinioni [cfr. ivi, p. 117].

Tutto ciò nella consapevolezza che la disputa, per essere davvero felice, deve essere continua, perché non esistono temi che non si possano discutere e non esiste una verità autarchica, come dicevano i razionalisti e gli empiristi, ma una verità retorica, che va trovata con mezzi retorici e sarà sempre suscettibile di nuovi accordi e nuove riformulazioni.

Conclusioni

Torniamo, quindi, all’importanza della retorica, da cui siamo partiti. Questa disciplina, infatti, che è l’arte di persuadere attraverso il discorso (Reboul, 2002), si configura come un processo di apprendimento che esalta i talenti e le abilità espressive dell’individuo, ma ha bisogno di essere “tirato fuori” da chi lo deve esercitare, e ciò è specifico dell’educazione (edūcĕre, trarre fuori). La scuola, dunque, deve assumersi questo compito, per rendere migliore la società.

Se nel panorama sociale in cui ci troviamo occorre porre fine alle generalizzate “lotte tribali” tra concorrenti spesso inconsapevoli, l’unico modo appare quello di ritornare a offrire l’insieme di tecniche che possano migliorare la comprensione reciproca, pur conservando punti di vista differenti. Poiché il risultato di aver messo da parte un insegnamento che prova a lavorare sulle emozioni, sul coinvolgimento, sulla capacità di farsi comprendere dai propri interlocutori, è stato quello di generare un continuo susseguirsi di strilli nel mucchio con conseguente “rumore” dannoso e incomprensibile, appare necessario un ammaestramento pedissequo e di sostanza che possa favorire, seppur nel lungo periodo, il superamento di queste dinamiche comunque come spiacevoli. Con l’affinamento delle capacità di linguaggio ed espressive, le persone impareranno a esercitare la propria libertà con consapevolezza, per il fine buono della convivenza pacifica.

Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di un approccio utopico poiché non ci sarebbero sufficienti maestri idonei e capaci di trasmettere i segreti di una disciplina basata sostanzialmente su un talento personale che non tutti possiedono nel massimo grado. Eppure, è la stessa retorica a fornire i suggerimenti e le tecniche per migliorarne sia l’esercizio che lo stesso addestramento. Ragion per cui si può e si deve osare, dato che lo scopo è alto e necessario. Oggi si è abituati a un linguaggio immediato, fluido, spesso “scomposto”, che è utile nell’immediato per una comprensione più legata a uno scambio ludico e di passatempo. L’obiettivo a lungo raggio, però, è quello di offrire ai cittadini dell’oggi e del domani, gli attrezzi necessari per imparare a parlare bene, farsi comprendere, saper ascoltare ed essere ricordati. Tutte prerogative che la retorica insegna e di cui dota, per non soccombere nell’anonimato dell’insignificanza, ma ammaestrando uomini e donne che sappiano prendersi cura del proprio intorno, forti di una dignità e libertà costate il sangue di quelli che li hanno preceduti.

Bibliografia

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MASTROIANNI, B. (2020). Litigando si impara. Disinnescare l’odio con la disputa felice in tempi di crisi. Firenze: Franco Cesati Editore.

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SPERBER, DAN (1999). Il contagio delle idee. Teoria naturalistica della cultura. Milano: Gian Giacomo Feltrinelli Editore

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