Ecco perché il Messaggio per la 51ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali non ci ha colti di sorpresa; piuttosto, ci ha confermati
nel nostro compito di annunciatori delle cose buone e delle cose belle. O, come
riporta lo stesso Messaggio, comunicatori di “speranza e fiducia nel nostro
tempo”.
Una sfida e un compito
Per chi avrà la pazienza di leggerlo, noterà che anche in
questa occasione il Papa consegna a tutti i comunicatori, ma in fondo anche a chi non lo è, una sfida e un compito.
La prima consiste, innanzitutto, nell’invertire la logica
che ci vuole ormai abituati “a fissare l’attenzione sulle ‘cattive notizie’
(guerre, terrorismo, scandali e ogni tipo di fallimento nelle vicende umane)”,
oltrepassando dunque “quel sentimento di malumore e di rassegnazione che spesso
ci afferra” e ci rende apatici, impauriti e disillusi. Ciò significa anche
cambiare il proprio paradigma esistenziale, nutrendo maggiore “speranza” (“la
più umile tra le virtù”) in un domani sicuramente migliore.
Quanto al compito, Papa Francesco lo configura come una
sorta di artigianato. Parla dei comunicatori, infatti, come di quegli
incaricati del “mulino”, che hanno la possibilità di “decidere se macinarvi
grano o zizzania”. L’ideale sarebbe preparare “un pane fragrante e buono”
(comunicazione costruttiva che rifiuta i pregiudizi e favorisce una cultura
dell’incontro) e inforcare “occhiali” buoni e “giusti”, per guardare alla
realtà “con consapevole fiducia”.
La bellezza di tutto ciò sta nel fatto che ciascuno di noi
diventa in qualche modo protagonista in questa chiamata a vivere e a
descrivere la realtà nello “scenario di una possibile buona notizia”. Buona
notizia che, per chi crede, è in definitiva la persona stessa di Gesù Cristo.
Con ciò, il Papa parla ai comunicatori ma in fondo parla
anche a ciascun fruitore dell’informazione, e quindi a tutti. Dal momento che
tutti siamo abilitati (vedi smartphone, social media, ecc.) ad acquisire
globalmente dati e contenuti, a ciascuno è richiesto di cercare il bene e
farsene diffusore, laddove esercita il proprio vissuto quotidiano, qualunque
sia l’ambiente fisico o virtuale (?) che frequenta.
In fondo, tutto questo dimostra ancora una volta – e la
Chiesa lo assume con assoluta consapevolezza – che non esistono più (e forse perché
non ne abbiamo più bisogno) i mediatori in senso classico, coloro che si
frapponevano tra l’accaduto e il destinatario dell’informazione, presentandone
una propria versione. Ciascuno raggiunge direttamente il “luogo dell’accaduto”
e ne legge (pensiamo agli occhiali) i risvolti secondo la sua sensibilità.
Qui però sopraggiunge una necessità, ed è quella dell’educazione.
Educare a leggere, educarsi a saper leggere. Educare la propria capacità “visiva”
(di comprensione della realtà), educare a fornire le necessarie chiavi di
lettura. Perché la lettura della realtà – dice il Papa – deve generare speranza.
Seguendo questa prospettiva, il comunicatore non è più dunque
il mediatore di cui avevamo bisogno nel passato, ma si converte in educatore. E
cosa è l’educazione in ambito comunicativo e informativo se non quell’artigianato
del sapere, che insegna fin da piccoli a saper assumere il pane buono della
conoscenza, a lavorare le farine migliori con la giusta dose di acqua e sale
(mescolare contenuti) e produrre così un pasto gustoso e fragrante, proprio
come chiede Francesco?